"So’ doje sore: ‘a riccia e a frolla.
Miez’a strada, fann’a folla.
Chella riccia è chiù sciarmante,
veste d’oro, ed è croccante,
caura, doce e profumata.
L’ata, 'a frolla, è na pupata.
E’ chiù tonna, e chiù modesta,
ma si’ a guarde, è già na festa.
Quann’e ncontre ncopp’o corso
t’e vulesse magnà a muorze.
E sti ssore accussì belle sai chi so’?
So’ ‘e sfugliatelle."
Oggi è domenica e, la domenica è anche il giorno dedicato ai dolci, alle paste, come vengono chiamate quelle che si comprano per portarle a casa o a casa di altri, se si è ospiti.
A Napoli, fra queste, è quasi d'obbligo la presenza di quella ritenuta, a torto o a ragione, il dolce tipico partenopeo: la sfogliatella, riccia o frolla che sia, il suo sapore delicato, la sua forma, il suo colore, il profumo dei suoi ingredienti, lasciano in chi la mangia una piena soddisfazione e dopo anche un lauto pasto, risulta essere la naturale chiusura dello stesso.
Ma come e dove nasce la sfogliatella? La storia non è quasi mai dolce. Ma ogni dolce ha la sua storia.
Di questo dolce tipicamente partenopeo si può tracciare una precisa toponomastica. Infatti il topos della sfogliatella è un monastero, quello di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini.
In quel sacro luogo si pregava tanto, ma, trattandosi di un convento di clausura, non si poteva andare da nessuna parte, e quindi di tempo libero ce n’era in abbondanza. Una parte di esso veniva speso in cucina, amministrata in un regime di stretta autarchia, le monache avevano il loro orto e la loro vigna. Anche il pane se lo facevano da sole, cuocendolo nel forno ogni due settimane. Il menu era uguale per tutte e soltanto le monache anziane potevano godere di un vitto speciale, fatto di nutrienti minestrine.
Un giorno di circa 400 anni fa la suora addetta alla cucina si accorse che era avanzata un po’ di semola cotta nel latte. Buttarla, non se ne parlava proprio. Fu così che, ispirata dall'Alto, la cuoca ci buttò dentro un po’ di frutta secca, di zucchero e di liquore al limone. “Potrebbe essere un ripieno”, si disse. Ma cosa poteva metterci sopra e sotto?
Preparò allora due sfoglie di pasta aggiungendovi strutto e vino bianco, e ci sistemò in mezzo il ripieno. Poi, siccome anche in un convento l’occhio vuole la sua parte, sollevò un po’ la sfoglia superiore, dandole la forma di un cappuccio di monaco, e infornò il tutto.
La Madre Superiora sulle prime fiutò il dolce appena sfornato, e subito dopo fiutò l’affare; con quest’invenzione benedetta si poteva far del bene sia ai contadini della zona, che alle casse del convento. La clausura non veniva messa in pericolo: il dolce veniva messo sulla classica ruota, in uscita. Sempre che, sia chiaro, i villici ci avessero messo, in entrata, qualche moneta. A questo dolce venne dato, inevitabilmente, il nome della Santa a cui era dedicato il convento.
Come tutti i doni di Dio, la Santarosa non poteva restare confinata in un sol luogo, per la gioia di pochi. La Santarosa ci mise circa cento cinquantanni per percorrere i sessanta chilometri tra Amalfi e Napoli. Qui arrivò ai primi dell’800, per merito dell’oste Pasquale Pintauro.
Molti avranno da ridire sull'attività di Pintauro che viene ritenuto da tutti i napoletani un pasticciere, e non un oste. Invece nei giorni di cui stiamo parlando era effettivamente un oste, con bottega in via Toledo, proprio di fronte a Santa Brigida. Il suo locale rimase un’osteria fino al 1818, anno in cui Pasquale entrò in possesso, per una via che non è mai stata chiarita, della ricetta originale della santarosa. Quell'anno ci furono due conversioni: Pintauro da oste divenne pasticciere, e la sua osteria si convertì in un laboratorio dolciario.
Pintauro non si limitò a diffondere la santarosa: la modificò, eliminando la crema pasticciera e l’amarena, e sopprimendo la protuberanza superiore a cappuccio di monaco. Nacque così la sfogliatella.
La sua varietà più famosa, la cosiddetta “riccia”, mantiene da allora la sua forma triangolare, a conchiglia, vagamente rococò (con una sola c, per evitare la confusione con il roccocò, altro famoso dolce napoletano).
Oggi la sfogliatella si può assaggiare in tutte la pasticcerie di Napoli. Se si cerca l’eccellenza, la bottega di Pintauro sta sempre là: ha cambiato gestione, ma non il nome e l’insegna, e nemmeno la qualità. Che resta quella di quasi duecento anni fa. Al viaggiatore che arriva alla stazione di Napoli, o che abbia almeno venti minuti fra un treno e l’altro, si consiglia di fare un salto da Attanasio, a Vico Ferrovia, che sforna sfogliatelle calde a getto continuo. Sulla sua “puteca” c’è scritto: “Napule tre cose tene belle: ‘o mare, ‘o Vesuvio e ‘e sfugliatelle”.
I napoletani amano mangiare la sfogliatella rigorosamente calda, appena sfornata: il sapore, se confrontato con quello di una sfogliatella fredda, è incomparabilmente migliore. Un'avvertanza, però, è d'obbligo: storditi dal profumo della sfogliatella appena sfornata, ormai nelle vostre mani, evitate di addentarla voracemente per non causarvi un'ustione al palato. Infatti, la caratteristica sfoglia lamellare è calda, ma il ripieno di ricotta è rovente.
Esistono, oltre alla sfogliatella riccia e frolla, due varianti del dolce campano: la Santarosa, di cui abbiamo già detto, e la coda d'aragosta che, a Salerno è conosciuta con il nome di Apollino, che risulta come una variante della sfogliatella riccia, molto più grande ed allungata e ripiena di panna montata, crema al cioccolato, crema chantilly o marmellata.
Per chiudere, comunque, aggiungerei alle tre cose belle di Napoli di cui parla Attanasio, una quarta: lo sfizio. E' da questa indefinibile arte, intrinseca nei napoletani, che nascono ideazioni come la sfogliatella o come tutte le prelibatezze, non necessariamente culinarie, di cui questa città ci delizia.